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Le Encicliche di Papa Pio X

«EDITAE SAEPE DEI»

(1910)

Celebra la memoria e l'opera apostolica e dottrinale di San Carlo Borromeo.

Ciò che la parola divina ricorda più volte nelle Sacre Scritture, come il giusto vivrà in memoria eterna di lodi e che egli parla anche defunto (Psal. CXI, 7; Prov. X, 7; Hebr. XI, 4), si avvera sopra tutto per la voce e l'opera continua della Chiesa. Questa, infatti, quale madre e altrice di santità, ringiovanita sempre più feconda dal soffio «dello Spirito Santo, che inabita in noi» (Rom. VIII, 11), come è sola a generare, nutrire ed allevare nel suo seno la nobilissima figliolanza dei giusti, così è la più sollecita, quasi per istinto di amore materno, a conservarne la memoria e a ravvivarne l'amore. Da tale ricordanza ella riceve quasi un divino conforto, e ritrae lo sguardo dalle miserie di questo pellegrinaggio mortale, mentre già vede nei santi «la sua gioia e la sua corona», riconosce in essi la immagine sublime del suo Sposo Celeste, e inculca ai suoi figli con nuova testimonianza il detto antico: «Per quanti amano Dio, per quelli che secondo il proposito divino sono stati chiamati santi, le cose tutte si rivolgono in bene» (Rom. VIII, 28). Né le loro opere gloriose riescono solo di conforto alla memoria, ma di luce all'imitazione e di forte incitamento alla virtù per quella eco unanime dei santi che risponde alla voce di Paolo: «Siate miei imitatori, come io sono di Cristo» (I Cor. IV, 16).

Per queste ragioni, Venerabili Fratelli, mentre Noi, appena assunto il Sommo Pontificato, significavamo il proposito di adoperarCi costantemente perché «le cose tutte fossero restaurate in Cristo», con la prima Nostra Lettera Enciclica (Lett. Enc. «E supremi», del 4 ottobre 1903), Ci studiammo vivamente di fare che tutti rivolgessero con Noi i loro sguardi a Gesù, «apostolo e pontefice della nostra confessione, autore e consumatore della fede» (Hebr. III, 1; XII, 2-3). Ma poiché la Nostra debolezza è tanta e facilmente restiamo sbigottiti dalla grandezza di tanto esemplare, per benefizio della Provvidenza divina un altro modello Noi avemmo da proporre, che pur essendo prossimo a Cristo, quanto a natura umana è possibile, è meglio confacevole alla debolezza Nostra, cioè la Beatissima Vergine, Augusta Madre di Dio (Lett. Enc. «Ad diem illum», del 21 febbraio 1904). Infine, cogliendo varie occasioni di ravvivare la memoria dei santi, proponemmo alla comune ammirazione questi servi e dispensatori fedeli nella casa di Dio, e secondo il grado proprio di ciascuno, amici e domestici di Lui, come quelli che «per la fede vinsero i regni, operarono la giustizia, ottennero le promesse» (Hebr. XI, 13), affinché dai loro esempi spronati «non siamo più bambini vacillanti e trasportati da ogni vento dì dottrina per raggiri degli uomini, per astuzia usata a circonvenire nell'errore; ma seguitando la verità nella carità, andiamo crescendo per ogni parte in Lui, che è il capo, Cristo» (Eph. IV, 11 segg.).

Questo consiglio altissimo della Provvidenza divina mostrammo attuato in tre personaggi massimamente che quali grandi pastori e dottori fiorirono in età ben diverse ma quasi del pari calamitose per la Chiesa: Gregorio Magno, Giovanni Grisostomo e Anselmo di Aosta, dei quali occorsero in questi ultimi anni solenni feste centenarie. Così più specialmente nelle due Lettere Encicliche date il 12 marzo 1904 e il 21 aprile del 1909, spiegammo quei punti di dottrina e precetti di vita cristiana, quali ci parvero opportuni ai nostri giorni, che si raccolgono dagli esempi e dagli insegnamenti dei santi.

E poiché Noi siamo persuasi che gli esempi illustri dei soldati di Cristo valgono assai meglio a scuotere gli animi e a trascinarli che non le parole o le altre trattazioni (Encicl. «E Supremi»), profittiamo ora volentieri di un'altra felice opportunità che Ci si porge, per commendare gli altissimi documenti di un altro santo Pastore, suscitato da Dio in tempi più vicini quasi in mezzo alle medesime tempeste, Cardinale della Santa Romana Chiesa e Arcivescovo di Milano, da Paolo V di santa memoria ascritto nel novero dei santi, Carlo Borromeo. E non meno a proposito; poiché - per usare le parole dello stesso Nostro Antecessore - «Il Signore che fa meraviglie grandi Egli solo, ha operato con noi cose magnifiche in questi ultimi tempi, e con opera mirabile della sua dispensazione ha eretto sopra la rocca dell'Apostolica pietra un grande luminare, eleggendo dal seno della sacrosanta Romana Chiesa, Carlo sacerdote fedele, servo buono, modello del gregge e modello dei pastori. Egli infatti, con molteplice fulgore di opere sante illustrando la Chiesa tutta, brilla innanzi ai sacerdoti ed al popolo, quale un Abele per l'innocenza, un Enoch per la purezza, un Giacobbe per la sofferenza delle fatiche, un Mosè per la mansuetudine, un Elia per lo zelo ardente. Egli in sé mostra da imitare, fra l'abbondanza delle delizie, l'austerità di Girolamo, nei gradi più alti l'umiltà di Martino, la sollecitudine pastorale di Gregorio, la libertà di Ambrogio, la carità di Paolino, e finalmente ci dà a vedere con gli occhi nostri, a toccare con le nostre mani, un uomo che, mentre il mondo gli sorride con le maggiori blandizie, vive crocifisso al mondo, vive nello spirito calpestando le cose terrene, cercando continuamente le Celesti, né solo per officio sostituito in luogo di Angelo, ma emulo in terra nei pensieri e nelle opere della vita degli Angeli» (Bolla «Unigenitus», novembre del 1610).

Così il Nostro Antecessore, trascorsi i cinque lustri dalla morte di Carlo. E ora, trascorsi tre secoli dalla glorificazione a lui decretata «meritamente é pieno il Nostro labbro di gaudio e la Nostra lingua di esultanza nell'insigne giorno della Nostra solennità, quando col decretare i sacri onori a Carlo prete Cardinale della Santa Romana Chiesa, alla quale Noi per disposizione del Signore presiediamo, fu aggiunta una corona ricca di ogni pietra preziosa all'unica Sua sposa». Così Noi abbiamo comune col Nostro Antecessore la confidenza, che dalla contemplazione della gloria, ma più ancora dagli insegnamenti e dagli esempi del Santo, si possa veder umiliata la protervia degli empi e confusi tutti quelli che «si gloriano dei simulacri degli errori» (dalla Bolla «Unigenitus»). Quindi la rinnovata glorificazione di Carlo modello del gregge e dei pastori nei tempi moderni, propugnatore e consigliere indefesso della verace riforma cattolica contro quei novatori recenti, il cui intento non era la reintegrazione, ma piuttosto la deformazione e distruzione della fede e dei costumi, riuscirà dopo tre secoli per tutti i cattolici di singolare conforto ed istruzione, come di nobile incitamento a tutti per cooperare strenuamente all'opera che tanto Ci sta a cuore della restaurazione di tutte le cose in Cristo.

Certamente è a voi ben noto, Venerabili Fratelli, come la Chiesa, quantunque tribolata continuamente, non è mai lasciata da Dio priva di ogni consolazione. Poiché Cristo «l'amò e dette se stesso per lei, alfine di santificarla e farsela comparire innanzi gloriosa, senza macchia, né ruga, né altra cosa tale, ma perché sia santa e immacolata» (Eph. V, 25 e segg.). Anzi, quando più sbrigliata la licenza dei costumi, più feroce l'impeto della persecuzione, più astute le insidie dell'errore sembrano minacciare a lei rovina estrema, fino a strapparle dal seno non pochi dei suoi figliuoli, per travolgerli nel vortice dell'empietà e dei vizi, allora la Chiesa sperimenta più efficace la protezione divina. Perocché Iddio fa che l'errore stesso, vogliano o no i malvagi, serva al trionfo della verità, di cui la Chiesa è vigile custode; la corruzione serva all'incremento della santità, di cui essa è attrice e maestra; la persecuzione ad una più mirabile «liberazione dai nostri nemici». Così avviene che quando la Chiesa appare agli occhi profani sbattuta da più fiera tempesta e quasi sommersa, allora n'esca più bella, più vigorosa, più pura, rifulgendo nello splendore delle maggiori virtù.

In questo modo la somma benignità di Dio viene confermando con nuovi argomenti, che la Chiesa è opera divina; sia perché nella prova più dolorosa, quella degli errori e delle colpe che s'infiltrano nelle stesse sue membra, le fa superare il cimento; sia perché le mostra attuato il detto di Cristo: «Le porte dell'inferno non prevarranno contro di lei» (Matth. XVI, 18); sia perché comprova di fatto la promessa: «Ecco io sarò con voi tutti i giorni sino alla consumazione dei secoli» (Matth. XXVIII, 20); sia infine perché testimonia di quella misteriosa virtù per cui un altro Paraclito, promessole da Cristo nel suo sollecito ritorno al Cielo, continuamente in lei effonde i suoi doni e la difende e la consola in ogni tribolazione: «spirito che rimane con lei in eterno; spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede, né lo conosce, perché egli dimorerà fra voi e sarà con voi» (Ioan. XIV, 16 e segg., 29, 59; XVI, 7 e segg.). Da questa fonte sgorga la vita e il nerbo della vita; e da questa pure il distinguersi da ogni altra società, come insegna il Concilio Ecumenico Vaticano, per le note manifeste, ond'è segnalata e costituita «quasi un vessillo sollevato fra le nazioni» (Sess. III, Const. Dei Filius, cap. 3).

E infatti, solo per un miracolo della potenza divina può succedere che tra l'inondare della corruzione e la frequente deficenza delle membra la Chiesa, in quanto è il Corpo mistico di Cristo, si mantenga indefettibile nella santità della dottrina, delle leggi, del suo fine; dalle cause stesse tragga del pari fruttuosi effetti; dalla fede e dalla giustizia di molti suoi figliuoli raccolga frutti copiosissimi di salute. Né meno chiaro apparisce il sigillo della sua vita divina in ciò che fra tanta e cosi turpe colluvie di perverse opinioni, fra cosi grande numero di ribelli, fra il tanto multiforme variare degli errori, essa persevera immutabile e costante, quale colonna e sostegno della verità, nella professione di una stessa dottrina, nella comunione degli stessi Sacramenti, nella sua divina costituzione, nel governo, nella morale. E ciò tanto più è mirabile, perché ella non solamente resiste al male, ma vince il male col bene, e mai resta dal benedire e agli amici e ai nemici, mentre tutta si affatica ed anela a operare la rinnovazione cristiana della società non meno che dei singoli individui. Poiché questa è la sua missione propria nel mondo, e di questa gli stessi suoi nemici sentono i benefizi.

Un tale mirabile influsso della Provvidenza divina nell'opera ristauratrice promossa dalla Chiesa appare splendidamente in quel secolo che vide sorgere a conforto dei buoni San Carlo Borromeo. Allora, spadroneggiando le passioni, travisata quasi del tutto e oscurata la cognizione della verità, eravi lotta continua con gli errori, e l'umana società, precipitando al peggio, sembrava correre all'abisso. Fra questi mali insorgevano uomini orgogliosi e ribelli, «nemici della Croce di Cristo...», uomini di «sentimenti terreni, il Dio dei quali é il ventre » (Phil. III, 18, 19). Costoro, applicandosi non a correggere i costumi, ma a negare i dogmi, moltiplicavano i disordini, allargavano a sé ed agli altri il freno della licenza, o certo sprezzando la guida autorevole della Chiesa, a seconda delle passioni dei prìncipi o dei popoli più corrotti, con una quasi tirannide ne rovesciavano la dottrina, la costituzione, la disciplina. Indi, imitando quegli iniqui, a cui è rivolta la minaccia: «Guai a voi che chiamate male il bene e bene il male!» (Is. V, 20), quel tumulto di ribellione, quella perversione di fede e di costumi chiamarono riforma e se stessi riformatori. Ma, in verità, essi furono corrompitori, sicché, snervando con dissensioni e guerre le forze dell'Europa, prepararono le ribellioni e l'apostasia dei tempi moderni, nei quali si rinnovarono insieme in un impeto solo quei tre generi di lotta, prima disgiunti, da cui la Chiesa era sempre uscita vincitrice: le lotte cruente della prima età, indi la peste domestica delle eresie; infine sotto il nome di libertà evangelica, quella corruzione di vizi e perversione della disciplina, a cui forse non era giunta l'età medioevale.

A questa turba di seduttori Iddio oppose veraci riformatori e uomini santi, sia per arrestare quella corrente impetuosa ed estinguere quel bollore, sia per riparare ai danni già recati. Quindi l'opera loro assidua e molteplice nella riforma della disciplina fu di tanto maggiore conforto alla Chiesa quanto più grave era la tribolazione che l'angustiava e comprovò il detto: «Fedele è Iddio, che... darà con la tentazione il vantaggio» (I Cor. X, 13). In si fatte circostanze veniva ad accrescere consolazione alla Chiesa, per disposizione provvidenziale, l'operosità e la santità singolare di Carlo Borromeo.

Senonché il ministero di lui, cosi disponendo Iddio, ebbe una forza ed efficacia tutta propria, né solo per fiaccare l'audacia dei faziosi, ma per ammaestrare ed infervorare i figliuoli della Chiesa. Di quelli, infatti, egli reprimeva i folli ardimenti e confutava le futili accuse, con l'eloquenza più potente, con l'esempio della sua vita e della sua operosità; di questi rialzava le speranze e ravvivava l'ardore. E fu certo cosa mirabile come egli accolse in sé riunite fino dalla sua giovinezza tutte quelle doti di un verace riformatore, che in altri vediamo disperse e distinte: virtù, senno, dottrina, autorità, potenza, alacrità; e tutte le fece servire unitamente alla difesa commessagli della verità cattolica contro le invadenti eresie, com'era pur la missione propria della Chiesa, risvegliando la fede sopita in molti e quasi estinta, corroborandola con provvide leggi ed istituzioni, rialzando la caduta disciplina e riconducendo strenuamente i costumi del clero e del popolo ad un tenore di vita cristiana. Così mentre adempie le parti tutte del riformatore, non meno adempie per tempo a tutti gli uffici del «servo buono e fedele», e più tardi quelle del sacerdote grande, che «piacque a Dio nei giorni suoi e fu trovato giusto», degno perciò di prendersi ad esempio da tutte le classi di persone, sia del clero o dei laici, siano ricchi o poveri; come quegli la cui eccellenza va compendiata in quella lode propria del Vescovo e del prelato, per la quale ubbidendo ai detti dell'Apostolo Pietro, egli si era «fatto di cuore modello del gregge» (I Petr. V, 3). Né di minore ammirazione è il fatto che Carlo, non ancora compiuti i suoi 23 anni di età[1], benché sollevato a sommi onori, e messo a parte di negozi grandi e difficilissimi della Chiesa, veniva ogni di meglio avanzandosi nell'esercizio più perfetto della virtù, mediante quella contemplazione delle cose divine, che nel sacro ritiro già l'aveva rinnovato, e risplendeva «spettacolo al mondo, agli angeli ed agli uomini».

Allora veramente, per usare le parole del già ricordato Nostro Antecessore Paolo V, cominciò il Signore a mostrare in Carlo le «sue meraviglie»: sapienza, giustizia, zelo ardentissimo in promuovere la gloria di Dio e del nome cattolico, e cura sopra tutto per quella opera di ristaurazione della fede e della Chiesa universale che si agitava nell'augusto Consesso Tridentino. Della celebrazione di questo Concilio gli dà merito lo stesso Pontefice e la posterità tutta, in quanto egli, prima di esserne l'esecutore più fedele, ne fu il più efficace sostenitore. Né certo, senza molte sue veglie, stenti e fatiche, ebbe quell'opera il suo ultimo compimento.

Eppure queste cose tutte non erano altro che una preparazione e un tirocinio di vita, nel quale educavasi il cuore con la pietà, la mente collo studio, il corpo colla fatica, serbandosi quel modesto e umile giovane quale argilla nelle mani di Dio e del suo Vicario in terra. E una tale vita di preparazione appunto era quella che disprezzavano allora i fautori di novità, per la stoltezza medesima onde la disprezzano i moderni, non avvertendo che le opere meravigliose di Dio si maturano nell'ombra e nel silenzio dell'anima dedita all'ubbidienza ed alla preghiera, e che in questa preparazione sta come il germe del futuro progresso, come nella seminagione la speranza della raccolta.

La santità, nondimeno, e l'operosità di Carlo, che si preparava allora con si splendidi auspici, si svolse poi e diede frutti prodigiosi, come accennammo sopra, quando egli «da buon operaio, lasciata la splendidezza e la maestà di Roma, si ritirò nel campo che aveva preso a coltivare (Milano), e adempiendovi ogni giorno meglio le sue parti, ricondusse quel campo, per la tristizia dei tempi già bruttamente guasto da sterpi e inselvatichito, a tale splendore che fece della Chiesa di Milano un chiarissimo esemplare di ecclesiastica disciplina» (Bolla «Unigenitus»).

Tanti e così preclari effetti egli ottenne conformando la sua opera di riforma alle norme proposte poco avanti dal Concilio Tridentino.

La Chiesa, infatti, bene intendendo quanto «i sentimenti e i pensieri dell'animo umano sono proclivi al male» (Gen. VIII, 21), mai non cessa di combattere contro i vizi e gli errori, perché «sia distrutto il corpo del peccato e più non serviamo al peccato» (Rom. VI, 6). E in questa lotta, come ella è maestra a se stessa e guidata dalla grazia che «e diffusa nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo», così prende norma al pensare e all'opera dal Dottore delle genti, che dice: «Rinnovatevi nello spirito della vostra mente» (Eph. IV, 23). «E non vogliate conformarvi a questo secolo, ma riformatevi nel ritrovamento della mente vostra, per accertare quale sia la volontà di Dio buona, accettevole e perfetta» (Rom. XII, 2). Né il figliuolo della Chiesa e riformatore sincero mai si persuade di avere toccata la meta, ma ad essa protesta solo di tendere insieme con l'Apostolo: «Dimenticando quel che sta dietro e stendendomi verso ciò che mi sta davanti, mi avanzo verso il segno, verso il premio della vocazione superna di Dio in Cristo Gesù» (Phil. III, 13, 14).

Quindi avviene che noi uniti con Cristo nella Chiesa «cresciamo per ogni cosa in lui che e il Capo, Cristo dal quale il corpo tutto prende l'accrescimento proprio per la perfezione di se stesso nella carità» (Eh. IV, 15, 16), e la Chiesa madre viene sempre più ad avverare quel mistero della volontà, «di restaurare nella ordinata pienezza dei tempi tutte le cose in Cristo» (Eph. I, 9, 10).

A queste cose non pensavano i riformatori, a cui si oppose Carlo Borromeo, presumendo riformare a loro capriccio la fede e la disciplina; né meglio le intendono i moderni, contro cui abbiamo noi da combattere, o Venerabili Fratelli. Anche costoro sovvertono dottrina, leggi, istituzioni della Chiesa, avendo sempre sulle labbra il grido di cultura e di civiltà, non perché stia loro troppo a cuore questo punto, ma perché con questi nomi grandiosi possono più agevolmente celare la malvagità dei loro intendimenti.

E quali in realtà sieno le loro mire, quali le loro trame, quale la via che intendono battere, nessuno di voi lo ignora, e i loro disegni furono già da Noi denunziati e condannati. Si propongono essi un'apostasia universale dalla fede e dalla disciplina della Chiesa, apostasia tanto peggiore dì quell'antica che mise in pericolo il secolo di Carlo, quanto più astutamente serpeggia occulta nelle vene stesse della Chiesa, quanto più sottilmente trae da principi erronei le conseguenze estreme.

Di ambedue, tuttavia, una stessa è l'origine: «l'uomo nemico», cioè, che sempre desto a perdizione degli uomini «soprasseminò la zizzania in mezzo al grano» (Matth. XIII, 25): del pari soppiatte e tenebrose le vie; simile il processo e l'esito finale. Perocché, a quel modo che nel passato la prima apostasia voltandosi dove la fortuna secondava, veniva aizzando l'una e l'altra, o la classe dei potenti o dei popolani, per travolgere poi l'una e l'altra nella perdizione cosi questa moderna apostasia esaspera l'odio vicendevole dei poveri e dei ricchi, acciocché scontento ognuno della sua sorte tragga sempre più misera la vita e paghi il fio imposto a quelli che tutti fissi nelle cose terrene e caduche, non cercano il «regno di Dio e la sua giustizia». Anzi il presente conflitto è fatto anche più grave da ciò che, dove i turbolenti novatori dei tempi andati ritenevano per lo più qualche resto del tesoro della dottrina rivelata, i moderni sembra che non vogliano darsi pace finché non lo abbiano veduto interamente disperso. Ora, così rovesciando il fondamento della religione, si scioglie necessariamente anche il vincolo della società civile. Spettacolo triste, al presente, minaccioso per l'avvenire; non perché vi sia da temere per l'incolumità della Chiesa, di cui non permettono dubbio le promesse divine, ma per i pericoli che sovrastano alle famiglie ed alle nazioni, massimamente a quelle che o fomentano con più studio o tollerano con più indifferenza questo pestifero soffio di empietà.

Fra una sì empia e stolida guerra, mossa talora e propagata con l'aiuto di quei medesimi che più dovrebbero appoggiarci e sostenere la nostra causa; fra un trasformarsi così molteplice degli errori e un blandire di vizi così vario, che dagli uni e dagli altri anche molti dei nostri si lasciano lusingare, sedotti dall'apparenza di novità e di dottrina, o dalla illusione che la Chiesa possa amichevolmente accordarsi con le massime del secolo, voi bene intendete, Venerabili Fratelli, che noi tutti dobbiamo opporre vigorosa resistenza e ribattere l'assalto dei nemici con quelle armi stesse, di cui un tempo usò il Borromeo.

E anzitutto, perché attentano alla rocca stessa che è la fede, o con l'aperta negazione, o con l'ipocrita impugnazione, o col travisarne le dottrine, ricorderemo quello che San Carlo spesso inculcava: «La prima e più grande cura dei Pastori deve essere intorno alle cose che riguardano il conservare integra e inviolata la fede cattolica, quella fede che la Santa Romana Chiesa professa e insegna, e senza la quale é impossibile piacere a Dio» (Conc. Prov. I, sub initium). E di nuovo: «In questa parte nessuna diligenza può essere così grande, quanto senza dubbio è richiesta dal bisogno» (Conc. Prov. V, pars I). Quindi è necessario di opporsi con la sana dottrina al «fermento dell'eretica pravità» che non represso corrompe tutta la massa, opporsi cioè alle perverse opinioni che s'infiltrano sotto mentite sembianze e che raccolte insieme sono professate dal modernismo; ricordando con San Carlo, «quanto sommo debba essere lo studio e diligentissima sopra ogni altra cura del Vescovo nel combattere il delitto dell'eresia» (Ibid.).

Né occorre, per verità, ricordare le altre parole del Santo che allega le sanzioni, le leggi, le pene poste dai Romani Pontefici contro quei prelati che fossero negligenti o rimessi nel purgare dall'eretica pravità la loro diocesi. Ma bene convenevole sarà riandare con attenta meditazione ciò che egli ne conclude: «Perciò deve il vescovo onzitutto persistere in questa sollecitudine perenne e vigilanza continua, acciocché non solo il morbo pestilentissimo dell'eresia non s'infiltri mai nel gregge a lui commesso, ma ne vada lontanissimo qualsiasi sospetto. E se poi, il che tolga Cristo Signore per la sua pietosa misericordia, s'infiltrasse, allora sopra tutto si adoperi con ogni sforzo perché sia ricacciato prestissimamente, e quelli che di tale pestilenza sono infetti o sospetti siano trattati a norma dei canoni e delle sanzioni pontificie» (Ibid.).

Ma né la liberazione, né la preservazione dalla peste degli errori è possibile, se non con una retta istruzione del clero e del popolo: poiché «la fede, dall'udito, e l'udito poi per la parola di Cristo» (Rom. X, 17). E la necessità d'inculcare la verità a tutti s'impone tanto maggiormente ai nostri giorni, mentre per tutte le vene dello Stato, e anche donde meno si crederebbe, vediamo infiltrarsi il veleno, a segno tale che per tutti valgono oggimai le ragioni addotte da San Carlo con queste parole: «Quei che confinano con gli eretici ove non fossero stabili e fermi nei fondamenti della fede, darebbero moltissimo a temere che non si lasciassero troppo facilmente tirare da essi in qualche inganno di empietà e di guasta dottrina» (Conc. Prov. V, pars I). Ora infatti per la facilità dei viaggi, sono cresciute le comunicazioni, come delle altre cose tutte, così anche degli errori, e per la sfrenata libertà delle passioni, viviamo in mezzo ad una società pervertita, ove «non é verità... e non esiste cognizione di Dio» (Os. IV, 1); «in una terra che è desolata... perché niuno vi è che pensi di cuore» (Ier. XX, 11). Perciò Noi, volendo usare le parole di San Carlo, «abbiamo adoperato finora molta diligenza perché tutti e singoli i fedeli di Cristo fossero bene istruiti nei rudimenti della fede cristiana» (Conc. Prov. V, pars I); e ne abbiamo anche scritto speciale Lettera Enciclica, come di argomento della più vitale importanza (Enc. «Acerbo nimis», del 25 aprile 1905). Ma, sebbene non vogliamo ripetere ciò che ardendo di zelo insaziabile deplorava il Borromeo, cioè: «di aver ottenuto finora troppo poco in cosa di tonta rilevanza», pure come lui, «indotti dalla grandezza del negozio e del pericolo», vorremmo anche maggiormente infiammare lo zelo di tutti; perché prendendo Carlo a modello, concorrano, ciascuno secondo il grado e le forze, a quest'opera di ristaurazione cristiana. Ricordino i padri di famiglia e i padroni con quale fervore ad essi inculcava il santo vescovo costantemente, che ai figliuoli, ai domestici, ai servi, non solo dessero facoltà ma imponessero l'obbligo d'imparare la dottrina cristiana. I chierici si ricordino l'aiuto che in questo insegnamento debbono prestare al parroco, e questi procuri che siffatte scuole si moltiplichino secondo il numero e la necessità dei fedeli, e siano commendevoli per la probità dei maestri ai quali siano dati per aiutatori uomini o donne di provata onestà, a quel modo che prescrive lo stesso santo arcivescovo di Milano (Conc. Prov. V, pars I).

Di tale cristiana istituzione appare evidentemente cresciuta la necessità sia da tutto l'andamento dei tempi e dei costumi moderni, sia specialmente da quelle pubbliche scuole, prive di ogni religione, dove si tiene quasi per sollazzo il deridere tutte le cose più sante, e del pari sono aperte alla bestemmia e le labbra dei maestri e le orecchie dei discepoli. Parliamo di quella scuola che si chiama per somma ingiuria neutra o laica, ma non è altro che tirannide prepotente di una setta tenebrosa. Un siffatto nuovo giogo di ipocrita libertà voi già denunciaste ad alta voce e intrepidamente, o Venerabili Fratelli, massime in quei paesi dove più sfrontatamente furono calpestati i diritti della religione e della famiglia, anzi soffocata la voce stessa della natura che vuole rispettati la fede e il candore dell'adolescenza. A rimediare, per quanto era in Noi, a un sì gran male, recato da quelli stessi che, mentre pretendono dagli altri obbedienza, la negano al Padrone supremo di tutte le cose, abbiamo raccomandato che si istituissero per le città opportune scuole religiose. E sebbene quest'opera, mercé i vostri sforzi, abbia fatto finora assai buoni progressi, tuttavia è sommamente da desiderare che sempre più largamente si propaghi, cioè che siffatte scuole si aprano dappertutto numerose e fioriscano di maestri commendevoli per merito di dottrina e per integrità di vita.

Con tale insegnamento utilissimo dei primi elementi va strettamente congiunto l'ufficio dell'oratore sacro, nel quale a più forte ragione si ricercano le doti ricordate. Quindi le diligenze e i consigli di Carlo nei Sinodi provinciali e nei diocesani miravano con una cura specialissima a formare predicatori tali che si potessero adoperare santamente e con frutto nel «ministero della parola». Ora la cosa stessa, e forse più fortemente, sembra richiesta a Noi dai tempi che corrono, mentre la fede vacilla in tanti cuori, né mancano di quelli che, per vaghezza di gloria vana, assecondano la moda, «adulterando la parola di Dio», sottraendo alle anime il cibo della vita.

Con somma vigilanza, pertanto, Noi dobbiamo guardare, Venerabili Fratelli, che il vostro gregge da uomini vani e frivoli non sia pasciuto di vento, ma sia nutrito del cibo vitale da «ministri della parola», ai quali si applicano quelle sentenze: «Noi facciamo le veci di ambasciatori a nome di Cristo, quasi esortando Iddio per mezzo di noi: riconciliatevi. con Dio» (II Cor. V, 20); «da ministri e da legati che non camminano nell'astuzia, né corrompono la parola di Dio, ma si rendono commendevoli presso ogni coscienza degli uomini innanzi a Dio per la manifestazione della verità» (II Cor. IV, 2); «operai che non possono essere confusi e con rettitudine maneggiano la parola della verità» (II Tim. II, 15). E non meno utili ci saranno quelle norme santissime e sommamente fruttuose che il Vescovo di Milano soleva raccomandare ai fedeli, e sono compendiate da quelle parole di San Paolo: «Avendo ricevuto da noi la parola della predicazione di Dio, voi l'accoglieste non come parola umana, (ma qual è veramente) parola di Dio, la quale opera in voi che avete creduto» (I Thess. II, 13).

Cosi la «parola di Dio, viva, efficace, più penetrativa di ogni spada» (Hebr. VI, 12) opererà non solo a conservazione e a difesa della fede, ma ad efficace impulso delle buone opere: giacché «la fede senza le opere è morta» (Iac. II, 26); «e non saranno giustificati innanzi a Dio quelli che ascoltano la legge, ma quei che la legge mettono in esecuzione» (Rom. II, 13).

Ed è questo un altro punto in cui si vede quanto immenso è il divario della vera dalla falsa riforma. Poiché quelli che propugnano la falsa, imitando la costanza degli stolti, sogliono ricorrere agli estremi, o esaltando la fede per modo da escludere la necessità delle buone opere, o collocando nella sola natura tutta la eccellenza della virtù senza gli aiuti della fede e della grazia divina. Onde segue che gli atti provenienti dalla sola onestà naturale, non sono altro che simulacri di virtù né durevoli in sé, né sufficienti alla salute. L'opera adunque di siffatti informatori non è valevole a ristaurare la disciplina, ma esiziale alla fede ed ai costumi.

Al contrario, quelli che, ad esempio di San Carlo, sinceramente e senza raggiri cercano la vera e salutare riforma, evitano gli estremi, né mai trascorrono oltre quei limiti fuori dei quali non può sussistere riforma alcuna. Poiché, uniti essi fermissimamente alla Chiesa e al loro Capo Cristo, non solo di qui attingono forza di vita interiore, ma anche ricevono norma di azione esteriore, per accingersi con sicurezza all'opera sanatrice della umana società. Ora di questa divina missione, trasmessa perpetuamente in quelli che debbono fare da legati di Cristo, è proprio «l'insegnare a tutte le genti», né solamente le cose da credere, ma quelle da operare, cioè come pronunziò Cristo stesso, «osservare tutte quelle cose che io vi ho comandato» (Matth. XXVIII, 18-20). Egli infatti è «vita, verità e vita» (Ioan. XIV, 6), ed è venuto perché gli uomini «abbiano la vita e l'abbiano con esuberanza» (Ioan. X, 10). Ma poiché l'adempiere quei doveri tutti colla sola guida della natura è molto al di sopra di ciò che possano per sé conseguire le forze dell'uomo, perciò la Chiesa ha, insieme col suo magistero, congiunto il potere di governare la società cristiana e di santificarla, mentre per mezzo di quelli che nel loro proprio grado ed officio le sono ministri e cooperatori, viene comunicando gli opportuni e necessari mezzi della salute.

Il che bene intendendo i veraci riformatori, non soffocano essi i germogli per porre in salvo la radice, cioè dire non disgiungono la fede dalla santità della vita, ma l'una e l'altra alimentano e riscaldano al soffio della carità, la quale è «vincolo della perfezione» (I Coloss. III, 14). Cosi pure, ubbidendo all'Apostolo, essi «custodiscono il deposito» (I Tim. VI, 20), non già per impedirne la manifestazione e sottrarne la luce alle genti, ma per diramare anzi con più larga vena le acque saluberrime di verità e di vita che sgorgano da quella sorgente. E in ciò congiungono la teoria alla pratica, di quella valendosi a prevenire ogni «circonvenzione dell'errore», di questa ad applicare i precetti alla morale ed all'azione della vita. Perciò anche procurano i mezzi tutti, od opportuni o necessari al fine, sia per la estirpazione del peccato sia per «la perfezione dei santi, per l'opera del ministero, l'edificazione del corpo di Cristo» (Eph. IV, 12). E a questo mirano appunto gli statuti, i canoni, le leggi dei Padri e dei Concili; a questo i mezzi tutti d'insegnamento, di governo, di santificazione, di beneficenza d'ogni fatta; a questo insomma la disciplina e l'operosità intera della Chiesa. A tali maestri della fede e della virtù tiene rivolto l'occhio e l'animo il vero figlio della Chiesa, mentre si propone la riforma di sé e degli altri. E a tali maestri pure si appoggia il Borromeo nella sua riforma della disciplina ecclesiastica, e spesso li ricorda, come quando scrive: «Noi, seguendo l'antica consuetudine ed autorità dei Santi Padri e dei sacri Concili, principalmente del Sinodo ecumenico di Trento, abbiamo stabilito intorno a questi punti stessi nei nostri precedenti Concili provinciali molte disposizioni». Similmente, nel prendere provvedimenti di repressione dei pubblici scandali, egli si professa guidato «e dal diritto e dalle sacrosante sanzioni dei sacri canoni, e del Concilio Tridentino soprattutto». (Conc. Prov. V, pars I).

Né contento di ciò, per meglio assicurarsi di non avere mai a dipartirsi dalla regola suddetta, così di solito conchiude gli statuti dei suoi Sinodi provinciali: «Tutte e singole quelle cose che da noi in questo Sinodo provinciale furono decretate e fatte, sottomettiamo sempre, perché sieno emendate e corrette, all'autorità ed al giudizio della Santa Romana Chiesa, di tutte le Chiese madre e maestra» (Conc. Prov. VI, sub finem). E questo suo proposito egli mostrò sempre più fervido, quanto più si avanzava a gran passo nella perfezione della vita attiva; né solo finché occupava la cattedra di Pietro il pontefice suo zio, ma anche sotto i costui successori, Pio V e Gregorio XIII, dei quali, com'egli potentemente suffragò la elezione, così nelle maggiori imprese fu valido aiuto, corrispondendo interamente alla loro aspettazione.

Ma soprattutto li secondò nell'attuare i mezzi pratici per il fine propostosi, cioè per la vera riforma della sacra disciplina. Nel che, di nuovo, si mostrò egli più che mai lontano dai riformatori falsi che mascherano di zelo la loro disubbidienza ostinata. Quindi, cominciando il «giudizio della Casa di Dio» (I Petr. IV, 17), si applicò anzitutto a riformare con leggi costanti la disciplina del clero; e a questo fine eresse seminari per gli alunni del sacerdozio, fondò congregazioni di sacerdoti, che ebbero nome di oblati, chiamò famiglie religiose e antiche e recenti, radunò Concili e con ogni sorta di provvedimenti assicurò e crebbe l'opera incominciata. Indi, senza ritardo, pose mano egualmente vigorosa a riformare i costumi del popolo, ritenendo per detto a sé quello che già fu detto al profeta: «Ecco, io ti ho stabilito oggi... perché tu sradichi e distrugga, perché disperda e dissipi, edifichi e pianti» (Ier. I, 10). Perciò da buon pastore, visitando personalmente le chiese della provincia, non senza gran fatica, a somiglianza del divino Maestro, «passò beneficando e sanando» le ferite del gregge; si affaticò con ogni sforzo a sopprimere e sradicare gli abusi che da per tutto s'incontravano, provenienti sia dall'ignoranza, sia dalla trascuranza delle leggi; alla perversione delle idee ed alla corruzione dei costumi straripante oppose, quasi argine, scuole e collegi, ch'egli apri per l'educazione dei fanciulli e dei giovanetti, congregazioni mariane, che egli accrebbe dopo averle conosciute al loro primo fiorire qui in Roma, ospizi, che egli schiuse alla gioventù orfana, ricoveri, che aperse alle pericolanti, alle vedove, ai mendichi o impotenti per malattia o per vecchiaia, uomini e donne; la tutela ch'egli prese dei poveri contro la prepotenza dei padroni, contro le usure, contro la tratta dei fanciulli, e simili altre istituzioni in gran numero. Ma tutto ciò egli operò aborrendo totalmente dal metodo di coloro che, nel rinnovare a loro senno la cristiana società, mettono tutto sossopra e in agitazione, con vanissimo strepito, dimentichi della parola divina: «nella commozione non è il Signore» (I Reg. XIX, 11).

È questo appunto un nuovo distintivo dei veri riformatori dai falsi, come più volte voi avete conosciuto a prova, Venerabili Fratelli. I riformatori falsi cercano «i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo» (Philip. II, 21), e dando orecchio all'invito insidioso già fatto al divino Maestro: «Va' e mostrati al mondo» (Ioan. VII, 4), ripetono anch'essi le parole ambiziose: «Facciamoci anche noi un nome». Per la quale temerità, come pur troppo deploriamo anche ai nostri giorni, «caddero dei sacerdoti in guerra, nell'atto che pretendevano fare cose grandi, e uscivano alla mischia senza prudenza» (I Machab. V, 57-67).

Al contrario il riformatore sincero «non cerca la sua gloria, ma la gloria di Colui che lo ha mandato» (Ioan. VII, 18), e come Cristo, suo esemplare, «non contenderà, né griderà, né alcuno udirà la sua voce per le piazze; non sarà torbido né irrequieto (Is. XLII, 2 segg.; Matth. XII, 19), ma sarà «dolce e umile di cuore» (Matth. XI, 29). Quindi egli piacerà al Signore e riporterà frutti copiosissimi di salute.

Per un altro distintivo ancora si differenziano l'uno dall'altro: mentre quegli, appoggiato solo alle forze umane, «confida nell'uomo e pone la sua fortezza nella carne» (Ier. XVII, 5), questi invece mette in Dio tutta la sua speranza; da Lui e dai mezzi soprannaturali aspetta ogni forza e virtù, esclamando con l'Apostolo: «Ogni cosa io posso in Colui che mi conforta» (Phil. IV, 13).

Questi mezzi, che Cristo comunicò in larga copia, il fedele cerca nella Chiesa stessa a comune salvezza, e primi fra essi la preghiera, il sacrificio, i Sacramenti, i quali divengono quasi «fonte di acqua che sale alla vita eterna» (Ioan. IV, 14). Ma di tutti questi mezzi mal sofferenti coloro che per vie traverse e dimentichi di Dio si affannano intorno all'opera della riforma, mai non cessano di intorbidare quelle fonti purissime, se non del tutto disseccarle, per tenerne lontano il gregge di Cristo. Nel che certo fanno anche peggio i loro moderni seguaci, che sotto una certa maschera di più alta religiosità, hanno in niun conto quei mezzi di salute e li mettono in discredito, particolarmente i due Sacramenti, coi quali o si perdonano i peccati alle anime pentite, o si fortificano le anime col cibo Celeste. Ogni fedele pertanto procurerà con sommo studio che benefizi di così gran pregio siano tenuti nel massimo onore, né soffrirà che l'affetto degli uomini illanguidisca verso queste due opere della carità divina.

Cosi appunto si adoperò il Borromeo, del quale fra le altre cose leggiamo scritto: «Quanto maggiore e più copioso é il frutto dei Sacramenti di quello che se ne possa spiegare facilmente il valore, con tanta più diligenza e intima pietà dell'anima ed esterno culto e venerazione si devono trattare e ricevere» (Conc. Prov. I, pars II). Del pari degnissime di essere ricordate sono le raccomandazioni onde egli esorta i Parroci e altri sacri predicatori di richiamare alla pratica antica la frequenza della santa Comunione, il che pure Noi abbiamo fatto col Decreto che incominciava: «Tridentina Synodus». «I Parroci e i Predicatori, dice il santo Vescovo, esortino quanto più spesso il popolo alla pratica salutarissima di ricevere frequentemente la sacra Eucaristia, appoggiandosi alle istituzioni ed agli esempi della Chiesa nascente, alle raccomandazioni dei Padri più autorevoli, alla dottrina del catechismo romano, in questo stesso punto più distesamente spiegata, e alla sentenza infine del Concilio Tridentino il quale vorrebbe che in ogni messa i fedeli si comunicassero non solo con ricevere l'Eucaristia spiritualmente, ma anche sacramentalmente» (Conc. Prov. III, pars I). Con quale intenzione poi, con quale affetto si debba frequentare questo sacro convito, lo insegna con queste parole: «Il popolo non solo deve essere spronato alla pratica di ricevere frequentemente il Santissimo Sacramento, ma pure ammonito quanto sia pericoloso ed esiziale l'accostarsi indegnamente alla sacra mensa di quel cibo divino» (Conc. Prov IV, pars II). E una simile diligenza sembra richiesta massimamente ai tempi nostri di fede vacillante e di carità illanguidita, acciocché dalla cresciuta frequenza non venga sminuita la riverenza debita a tanto mistero, ma piuttosto se ne tragga motivo a far che «l'uomo provi se stesso e così mangi di quel pane e beva del calice» (I Cor. XI, 28).

Da queste fonti sgorgherà una ricca vena di grazie e da essa trarranno vigore ed alimento anche i mezzi naturali ed umani. Né l'azione del cristiano disprezzerà punto le cose utili e di conforto alla vita, venendo anch'esse dal medesimo Iddio, autore della grazia e della natura; ma eviterà con gran diligenza che in cercare e godere le cose esterne e i beni del corpo, si riponga il fine e quasi la felicità di tutta la vita. Chi vuole pertanto usare di questi mezzi con rettitudine e temperanza, li ordinerà alla salute delle anime, ubbidendo al detto di Cristo: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date per giunta» (Luc. XII, 31; Matth. VI, 33).

Un siffatto uso di mezzi ordinato e sapiente tanto è lungi che mai venga ad opporsi al bene di ordine inferiore, cioè proprio della società civile, che anzi ne promuove in gran maniera gli interessi; né già con vana iattanza di parole, com'è il costume dei faziosi riformatori, ma coi fatti e col sommo sforzo, fino al sacrificio delle sostanze, delle forze e della vita. Di tali fortezze ci dànno esempio soprattutto molti Vescovi, i quali, in tempi tristi per la Chiesa, emulando lo zelo dì Carlo, avverano le parole del divino Maestro: «Il buon pastore dà la vita per le sue pecorelle» (Ioan. X, 11). Essi non da bramosia di gloria, non da spirito di parte, non da stimolo di alcun privato interesse sono tratti a sacrificarsi per la salvezza comune, ma da quella carità «che mai non vien meno». Da questa fiamma, che sfugge agli occhi profani, acceso il Borromeo, dopo essersi esposto a pericolo di vita nel servire gli appestati, non contento di aver sovvenuto ai mali presenti, così mostravasi ancora sollecito dei futuri: «È affatto conforme ad ogni ragione che, in quel modo onde un ottimo padre, il quale ama di amore unico i suoi figliuoli, provvede ad essi sia per il presente come per il futuro, preparando le cose necessarie per la vita, così noi, mossi dal debito dell'amore paterno, provvediamo ai fedeli della nostra provincia con ogni precauzione e prepariamo per l'avvenire quegli aiuti che nel tempo della peste abbiamo conosciuto per esperienza essere salutari» (Conc. Prov. V, pars II).

I medesimi disegni e propositi di affettuosa provvidenza, Venerabili Fratelli, trovano una pratica occupazione in quell'azione cattolica che spesse volte abbiamo raccomandato. E a parte di questo apostolato nobilissimo, il quale abbraccia tutte le opere di misericordia da premiarsi col regno eterno (Matth. XXV, 34 e segg.), sono chiamati gli uomini scelti del laicato. Ma essi, accogliendo in sé questo peso, devono essere pronti e addestrati a sacrificare interamente se stessi e tutte le cose loro per la buona causa, a sostenere l'invidia, la contraddizione e anche l'avversione di molti che ricambiano d'ingratitudine i benefizi, a faticare ognuno come «buon soldato dì Cristo» (II Tim. II, 3), a correre «per la via della pazienza al certame propostoci, riguardando all'autore e consumatore della fede Gesù» (Hebr. XII, 1, 2). Lotta certamente ben dura, ma efficacissima al benessere stesso della società civile, anche quando ne sia ritardata la piena vittoria.

Anche per questo ultimo punto ora menzionato, si possono ammirare esempi splendidi di San Carlo, e da essi prendere, ciascuno secondo la propria condizione, di che imitare e confortarsi. Benché, infatti, e la virtù singolare e l'operosità maravigliosa e la profusa carità lo facessero tanto ragguardevole, neppure egli tuttavia andò esente da questa legge: «Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù, patiranno persecuzioni» (II Tim. III, 12). Quindi perciò stesso ch'egli seguiva un tenore di vita più austero, che sosteneva sempre la rettitudine e l'onestà, che sorgeva vindice incorrotto delle leggi e della giustizia, si guadagnò l'avversione di uomini potenti; si trovò esposto a raggiri di diplomatici; venne talora in diffidenza ai nobili, al clero ed al popolo, e infine si trasse addosso l'odio mortale dei malvagi, e ne fu cercato a morte[2]. Ma a tutto egli resistette con animo invitto, sebbene d'indole mite e soave.

Né solo non cedette mai a cosa che fosse esiziale alla fede ed ai costumi, ma neppure a pretensioni contrarie alla disciplina e gravose al popolo fedele, ancorché attribuite ad un monarca potentissimo e nel resto cattolico. Memore delle parole di Cristo: «Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che é di Dio» (Matth. XXII, 21), come pure della voce degli Apostoli: «Meglio é obbedire a Dio che agli uomini» (Act. V, 29), egli si rese benemerito al sommo, non della causa della religione solamente, ma della civile società, la quale, pagando il fio della sua stolta prudenza e sommersa quasi dalla tempesta delle sedizioni da sé eccitate, correva a morte certissima.

La medesima gloria e gratitudine sarà dovuta ai cattolici del nostro tempo e ai valorosi condottieri, i vescovi, mentre né gli uni né gli altri verranno mai a mancare in parte alcuna ai doveri che sono propri dei cittadini, sia che trattisi di serbare fedeltà e rispetto ai «dominanti anche discoli» quando comandino cose giuste, sia di ripugnare ai loro comandi quando siano iniqui, tenendo lontana del pari e la pervicace ribellione di quelli che corrono alle sedizioni ed ai tumulti, e la servile abiezione di quelli che accolgono quasi leggi sacrosante gli statuti manifestamente empi di uomini perversi, i quali col mentito nome di libertà sconvolgono ogni cosa e impongono la tirannide più dura. Ciò avviene al cospetto del mondo e alla piena luce della moderna civiltà, in qualche nazione specialmente, ove il «potere delle tenebre» sembra che abbia messa la sua sede principale. Sotto quella prepotente tirannide vanno calpestati miseramente i diritti tutti dei figliuoli della Chiesa, spento affatto nei governanti ogni senso di generosità, di gentilezza e di fede, onde per tanto tempo splenderono i loro padri, insigni del titolo di cristiani. Tanto è evidente che, entrato l'odio di Dio e della Chiesa, si torna addietro in ogni cosa, e si corre a precipizio verso la barbarie dell'antica libertà, o piuttosto giogo crudelissimo, da cui la sola famiglia di Cristo e l'educazione da lei introdotta ci ha sottratti. Ovvero, come esprimeva la cosa stessa il Borromeo, tanto è «cosa certa e riconosciuta, che da nessuna altra colpa è Dio più gravemente offeso, da nessuna provocato a maggiore sdegno quanto dal vizio delle eresie, e che a sua volta nulla può tanto a rovina delle province e dei regni, quanto può quell'orrida peste» (Conc. Prov. V, pars I). Senonché molto più funesta si deve stimare l'odierna congiura di strappare le nazioni cristiane dal seno della Chiesa, come dicemmo. I nemici infatti, sebbene discordissimi di pensieri e di volontà, ciò che è contrassegno certo dell'errore, in una cosa solo si accordano, nell'oppugnazione ostinata della verità e della giustizia; e poiché dell'una e dell'altra custode e vindice è la Chiesa, contro la Chiesa sola, strette le loro file, muovono all'assalto. E benché vadano dicendo di essere imparziali o di promuovere la causa della pace, altro in verità non fanno, con dolci parole ma non dissimulati propositi, se non tendere insidie, per aggiungere il danno allo scherno, il tradimento alla violenza. Con un nuovo metodo di lotta è ora dunque assalito il nome cristiano; e una guerra si muove di gran lunga più pericolosa che non le battaglie prima combattute, dalle quali raccolse tanta gloria il Borromeo.

Di qui noi tutti prendendo esempio ed istruzione, ci animeremo a combattere da forti per i più grandi interessi, da cui dipende la salvezza degl'individui e della società, per la fede e la religione, per l'inviolabilità del pubblico diritto; combatteremo sforzati certo da un'amara necessità, ma confortati insieme da una soave speranza che la onnipotenza di Dio affretterà la vittoria a chi combatte in così gloriosa battaglia. A tale speranza aggiunge vigore l'efficacia potente, perpetuata fino ai giorni nostri, dell'opera di San Carlo, sia per fiaccare l'orgoglio delle menti, sia per assodare l'animo nel proposito santo di restaurare ogni cosa in Cristo.

Ed ora, Venerabili Fratelli, noi possiamo conchiudere con le parole stesse, onde il Nostro Antecessore, Paolo V, più volte menzionato, conchiudeva le lettere che decretavano a Carlo i supremi onori: «È giusto per tanto, che noi rendiamo gloria e onore e benedizione a Colui che vive nei secoli dei secoli, il quale benedisse il nostro conservo in ogni benedizione spirituale, perché fosse santo e immacolato innanzi a lui. E avendocelo dato il Signore come una stella fulgente in questa notte di peccato, di tribolazioni nostre, ricorriamo alla divina clemenza, con la bocca e coll'opera supplicando, acciocché Carlo alla Chiesa che egli amò tanto ardentemente, giovi altresì coi meriti e coll'esempio, assista col patrocinio e nel tempo dello sdegno si faccia riconciliazione per Cristo nostro Signore» (Bolla «Unigenitus»).

Si aggiunga a questi voti e ponga il colmo alla comune speranza l'auspicio della Benedizione Apostolica, che a voi, Venerabili Fratelli, al clero e al popolo di ciascuno di voi, con vivo affetto impartiamo.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 26 maggio 1910, VII del Nostro Pontificato.

PIO PP. X.


[1] San Carlo Borromeo, nato nel 1538, fu creato cardinale e arcivescovo di Milano nel 1560: era Papa Pio IV (Giovannangelo Medici), suo zio materno.

[2] Si ricorda l'attentato in cui per poco San Carlo non perdette la vita. Tale Gerolamo Donato, detto il Farina, sparò un colpo di archibugio contro il Santo, intento alla preghiera nella sua cappella privata (26 Ottobre 1569).

ultimo aggiornamento: 14.08.2007

 
 
 
 
 
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